Piccozza, fune e ramponi
Dalla vita di un alpinista
di Julius Kugy
Dal Tricorno e il Jôf del Montasio nelle Alpi Giulie, dal Cristallo, alla Cima Lavaredo, all’Antelao ed al Sorapis nelle Dolomiti, dal Monte Rosa al Monte Bianco, dal Cervino al Gran Paradiso, dal Monviso al Delfinato. E poi mille cime, ghiacciai e creste. La vita di un alpinista ….
Imparai a conoscere solo molto più tardi tutte queste comodità dell’alpinista moderno. Per molto tempo non conobbi le scarpe da roccia; sui lastroni ci levavamo semplicemente le calze e le scarpe e s’andava scalzi. Non conoscevo i ramponi a cerniera, ma portavo i ferri pesanti a lunghi rebbi, tutti d’un pezzo, degli spaccalegna, e talvolta li adoperavo, come fanno i trentani, anche sulla roccia. Nei nostri bivacchi non usavano le coperte e lo sweater fu per molto tempo un lusso a me sconosciuto Ci coprivamo con la giubba e ci scaldavamo al fuoco se c’era legna. Ma non mancarono i bivacchi senza fuoco; alla mattina battevamo talmente i denti da non riuscire a comunicarci le cose più semplici. La cucinetta a spirito, la teiera, la posata, le borracce e tutti i bei barattoli di latta o d’alluminio col loro svariato contenuto, che oggi sono accolti nel sacco alpino, vennero molto più tardi. Il nostro equipaggiamento era assai leggero. Piccozza, fune, ramponi e, nel misero sacco, pane, lardo, formaggio, spesso niente altro che un bel pezzo di polenta gialla avvolta in un fazzoletto pulito. Bevanda: acqua di neve. Eppure, è strano, allora era più facile di adesso che mi faccio portar dietro sacchi rimpinzati di tutte le meraviglie della moderna era alpina!
Appassionato botanico, amante della natura, sapeva vedere il movimento dei camosci:
“Io ho fatto la scuola dei cacciatori di camosci, donde la mia tendenza a sfruttare possibilmente le risorse dei sistemi di cenge, che sono le strade dei camosci. Soltanto quando di lì non si veniva a capo, attaccavamo la roccia in senso verticale. In quella prima traversata delle pareti settentrionali seguimmo, dalla forcella della cresta nord, dopo aver superato un difficile camino, la cengia più alta, fin quasi sopra la finestra del Prisojnik, e raggiungemmo la vetta per la cresta occidentale.”
Ma non solo:
Mentre c’eravamo addossati per una breve sosta alle rocce del Pic Central, udimmo un gran frusciare sopra a noi. Era un’aquila. Si avvicinò con velocità paurosa, tese le ali, gli occhi fissi su noi, gli artigli aperti, pronta all’attacco. Noi eravamo balzati in piedi stringendo istintivamente le piccozze. Ma a pochi palmi da noi l’uccello cambiò rotta e s’allontanò descrivendo un arco magnifico. Uno stormo di cornacchie l’aveva seguito e si disperse gracchiando. Sentimmo che ci aveva sfiorati il colpo d’ala d’un re.
Kugy, l’alpinista-poeta, che incontrò durante le sue scalate i più grandi personaggi dell’Alpinismo da Guido Rey, alle guide alpine Antonio Oitzinger, Jože e Andrea Komac, i Pesamosca, Michele Innerkofler, Giuseppe Croux, Ciprien e Albert Savoye, Laurent Petigax, Mattia Zurbriggen, Graziadio Bolaffio, Daniele Maquignaz ed apparve in una novella di Edmondo De Amicis che presto pubblicheremo.
Noi alpinisti vediamo sempre i monti che amiamo. Così li vedo tutti i giorni davanti a me, i monti del Delfinato, all’orizzonte lontano. Vedo le loro creste nere che sovrastano i ghiacciai, e le valli profonde piene di frantumi e macerie. Non sono le lame corrusche delle Dolomiti, non le vette isolate e ben distinte del Vallese, non le muraglie gelate del Rosa, non gli enormi ammassi di ghiaccio del Monte Bianco dominatore, non le rastrelliere di lance delle Aiguilles di Chamonix. Non sono le forme tenere e pittoresche dell’Oberland Bernese, non i castelli scintillanti del Bernina, non i monti nobili e schietti della Savoia che sorgono solenni sopra i laghi e le valli e offrono dalle vette visioni paradisiache. È un mondo nuovo! Il Delfinato non lo si può immaginare, bisogna averlo veduto. E chi l’ha visto, è preso dal suo fascino, e ci ritorna.
Immagine: Cimon de la Pala, Giovanni_Salviati (1881-1951)