Da Quarto a Marsala: l’impresa dei mille
Storia dei Mille
Giuseppe Cesare Abba
Non credo che prima d’ora la massima impresa di Garibaldi sia stata detta, nè in prosa nè in verso, con più scrupolo riguardo alla verità storica e nel tempo stesso con più potenza di fantasia evocatrice, con più eroica gentilezza di commozione, con più svelta e nervosa efficacia d’atteggiamenti e di forme. (G. Cesareo 1904)
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Intervista ad Andrea Camilleri – www.vigata.org
Maestro, se dovesse raccontare la Spedizione dei Mille a un bambino…?
«In parole semplici, si può dire che la Spedizione, composta da gente di ogni parte della Penisola e anche da stranieri, è il gesto di guerra che ha dato concretamente inizio all’Unità d’Italia. È un viaggio molto bello, a pensarci bene, perché si tratta di 1.080 persone che s’imbarcano a Quarto su due navi, più o meno avventurosamente si riforniscono di carburante e di quello che serve, eludono la sorveglianza dei militari e arrivano a Marsala. Nella durata di un viaggio, in cui si parla poco l’italiano e molto il dialetto, questa gente eterogenea e raccogliticcia, animata però da uno spirito comune, diventa a poco a poco un esercito».
Un miracolo che dobbiamo a Poseidone?
«Fatto sta che proprio in mezzo al mare loro iniziano a fare squadra. Sbarcano a Marsala e dopo pochi giorni hanno la prima battaglia seria, a Calatafimi, dove si trovano di fronte a soverchianti forze borboniche munite di artiglieria e robe simili, eppure vincono. Nel giro di pochi giorni, sono diventati una forza. È sorprendente».
Mentre quando sono partiti che cos’erano?
«L’estrazione dei Mille è il vero miracolo, che nessuno spiega se non per pochi cenni. Diversi componenti della Spedizione hanno lasciato diari di quei giorni, a partire dall’asciutta relazione di Ippolito Nievo, che è stupenda. Ci sono poi le Noterelle di Giuseppe Cesare Abba, con la splendida pagina dedicata alla battaglia di Calatafimi, c’è il libro di Giuseppe Bandi e altri ancora, sono almeno sette o otto. Una cosa che m’incuriosisce molto, ma ogni volta che cerco maggiori dettagli resto insoddisfatto, è la presenza degli stranieri. Prendiamo ad esempio i colonnelli Türr e Tuköry. Quelli erano ungheresi veri, mica di Busto Arsizio o Pinerolo! Come diavolo c’erano arrivati, sul Lombardo e sul Piemonte? È un mistero affascinante. Luciano Bianciardi, un grande scrittore purtroppo dimenticato, ha tentato di raccontare questa storia nel suo Da Quarto a Torino, che è un volume ricco di retroscena».
Maestro, chi era il signor Garibaldi? A quali altri personaggi della Storia lo possiamo paragonare?
«Mi rendo conto che il paragone può apparire ardito, ma in ciò che vado a dire non c’è alcuna considerazione, per così dire, politica. Mi attengo alle figure umane, come la storiografia ce le propone. Guardando alla mitologia odierna, Giuseppe Garibaldi potrebbe essere considerato una sorta di Che Guevara, che però non commette il suo errore, cioè andare dove non c’è un terreno fertile. Garibaldi sceglie perfettamente il teatro in cui operare: la Sicilia. L’isola era stata un continuo terremoto, dal 1848 in poi. Anche perché il Regno borbonico si era preoccupato di regnare, ma non di avere dei cittadini borbonici, di trovare un’unità al suo interno, per esempio tra napoletani e siciliani. In Sicilia, anche per questo motivo, le spinte separatiste rimasero vivissime. Vi attecchirono in parallelo le idee liberali, che erano molto combattute a Napoli, dove si avvertiva la diretta pressione dei Borbone, mentre a Palermo non era così. Il capoluogo isolano aveva avuto addirittura un suo Senato, una forma d’indipendenza con Ruggero Settimo, e quindi il terreno era ottimo, per una rivolta».
Immagine: Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio di Renato Guttuso (Bagheria 1911 – Roma 1987)