Favole

Tienghe ‘na fame, cha me magnarria Napele, Càpue e trentasè’ Casale.

USI E COSTUMI
ABRUZZESI

FIABE

raccolte da

Antonio De Nino

Antonio De Nino (Pratola Peligna, 15 giugno 1833 – Sulmona, 1º marzo 1907) è stato un antropologo e storico italiano. Collaborò con Gabriele d’Annunzio alla stesura di alcune tragedie, nella parte riguardante la ricerca delle fonti e dei contesti storico-culturali, delle tradizioni e del retaggio abruzzese, ove collocare lo svolgimento delle scene.

Oltre alla fama di ricercatore serio e scientifico sulle tradizioni popolari abruzzesi, De Nino fu anche il pioniere delle moderne campagne di scavi archeologici in Abruzzo, lavorando ad oltre 100 campagne di scavi nella regione, collezionando un vasto patrimonio.

Presentiamo il terzo volume di “Usi e Costumi Abruzzesi” (pubblicato nel 1883) che mette insieme 75 fiabe raccolte da De Nino; le fiabe sono accompagnate da ben 544 note: provenienza, traduzione di alcuni termini e di filastrocche, spiegazioni, etc.

Si tratta delle trascrizione in italiano delle fiabe popolari, molte delle quali rielaborate da miti antichi o fatti storici che riguardarono l’Abruzzo, occupazione romana, invasioni saracene, turche, terremoti, oppure rielaborazioni di fiabe popolari europee trascritte dai fratelli Grimm, da Perrault, da Basile, ecc. Quasi tutte le favole riportano l’introduzione e la conclusione con filastrocche poetiche in dialetto cantate dalle madri o dalle nonne che raccontano la favola, e come sempre in appendice ci sono le note delle località cui appartengono queste favole, con le relative varianti di luogo in luogo.

Il lavoro di digitalizzazione è stato quindi lungo e complesso, ma riteniamo che l’opera lo meriti.

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Il Satiro

Senti adesso il racconto. C’era una giovanetta che faceva l’amore. La famiglia non era contenta dello sposo. La giovane, però, lo voleva per forza; e si accordò con lo sposo che se ne sarebbero fuggiti nottetempo. Si prepararono tutti e due per la fuga. Era una notte oscura oscura. La giovane si affacciò al balcone, e sentì parlare sottovoce. — Sarà lui? anzi è lui. Tieni: ti faccio calare la cassetta con le mie gioie. — La cassetta se la presero i ladri che stavano lì appiattati per un furto. Poi scese anche la giovane per una fune; e i ladri l’afferrarono anche. Tutti verso la marina: ed entrarono in una barca. In mezzo al mare c’era un palazzo. La giovanetta disse ai ladri che quello era anche un palazzo di suo padre. Vi stavano tanti mucchi d’oro e d’argento…. I ladri scesero a terra per rubare l’argento e l’oro. La giovane, che sapeva remare, girò la barca; e, in fretta e in furia, cercò di guadagnare spiaggia. Là si tagliò i capelli, si vestì da uomo, e andò a servire nel palazzo del re.

Il re stava tutto rammaricato. Nel bosco vicino, era comparso un Satiro che faceva strage di quanti passavano. Dei soldati ch’erano iti per ucciderlo, non tornava nessuno indietro. Il giovane servitore si vantò che esso si fidava[1] di uccidere il Satiro. Il re l’obbligò a provarcisi. Il finto servitore si portò una secchia di latte, alcuni filari di pane e una grossa catena. Nel bosco, vide da lontano il Satiro. Allora spezzò il pane, e lo messe dentro la secchia del latte; e s’arrampicò in un albero. Il Satiro era corso per mangiarsi l’uomo, ma si fermò a mangiare la zuppa col latte. Il giovane, in quel mentre, gli fece calare sul collo la catena aggiustata a cappio, e tirò. Il Satiro rimase incatenato; e come vide il finto servitore, si messe a ridere. E poi, via: l’uno innanzi e l’altro dietro. Prima di entrare nella città, c’era una chiesa, dove il prete faceva un battesimo; e il Satiro rise la seconda volta. Una terza risata, poi, se la fece, passando per la piazza; e una quarta, nell’entrata del palazzo del re.

Il Satiro stava incatenato, e le feste durarono parecchi giorni. Il Satiro, però, non voleva parlare. Il re obbligò il servitore a far parlare il Satiro. Il servitore disse: — Se deve parlare, vuole stare in mezzo a tutto il popolo, nella piazza. — E sia pure; — rispose il re. Fu chiamato il popolo. Nella piazza non c’era spazio, dove far cadere un acino di grano. Il servitore domandò al Satiro: — Perchè ridesti, quando t’incatenai? — Risi, perchè, quello che non avevano potuto fare tante compagnie di soldati, l’aveva poi fatto una donna. E già: fu una donna quella che m’incatenò. — Figuratevi le meraviglie della popolazione! Il giovane seguitò a domandare: — Perchè ridesti, nel passare innanzi alla chiesa? — Risi, perchè un prete battezzava il proprio figlio. — Mormorazione generale. E ancora: — Quando passammo per la piazza, perchè ridesti? — Perchè ci vedevo la tua dote; ci vedevo seppelliti tre bigonci di monete d’oro. — A questo, poi, si messero tutti a ridere. E il giovane seguitò a domandare: — E, quando entravamo nel palazzo del re, perchè ridesti? — Perchè vedevo che tutte le damigelle della figlia del re erano altrettanti uomini! — Oh Dio! Il re fece verificare ogni cosa: il servitore era una donna; il prete realmente battezzava suo figlio; i tre bigonci di monete d’oro stavano sepolti nella piazza, e le damigelle erano uomini con tutte le regole. Allora il prete e la figlia del re e le finte damigelle furono infocate[2] in mezzo alla piazza. I tre bigonci di quattrini servirono di dote alla giovane che si sposò il figlio del re; e alle nozze ci andai anch’io. E tu? — Io?!

Tienghe ‘na fame, cha me magnarria Napele, Càpue e trentasè’ Casale.[3] [4]


[2] Arse.

[1] Aveva il coraggio, era certo.

[3] Tengo una fame, che mi mangerei Napoli, Capua e trentasei casali.

[4] Valle Peligna.

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Immagine: Vincenzo Alicandri (1871-1955) – Pastorella

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